Il lieto fine è la nostra fede nazionale.
La nevrosi moderna è cominciata con le scoperte di Copernico.
Nella violenza ci dimentichiamo chi siamo.
Il domicilio del proprio io, come quello dell'anima, non lo si può trovare in un libro.
Oggi il consumatore è la vittima del produttore, che gli rovescia addosso una massa di prodotti ai quali deve trovar posto nella sua anima.
Massimo segno della fine, è il principio.
Da qualche parte esiste una fine. Solo che non si trova un cartello con scritto "Ecco, questa è la fine", come al gradino più alto di una scala non si trova scritto: "Attenzione, questo è l'ultimo gradino. Non fate un passo oltre."
Più o meno, noi desideriamo veder la fine di tutto ciò che operiamo e facciamo; siamo impazienti di giungere al termine, e lieti di esservi giunti. Soltanto la fine totale, la fine di tutte le fini, noi ce l'auguriamo, di solito, il più tardi possibile.
La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo siamo mai.
C'è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte.
Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine? A questa domanda che il pensiero lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi.
La percezione della fine è dentro ciascuno di noi, è uno stigma della specie, un marchio della sua caducità.
Un fine autentico può fare a meno di speranze e anche di ogni probabilità di essere raggiunto.
Fine ultimo di tutto, la fine.