Volenti o nolenti l'abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell'esistere e del desiderare.

Emanuele Trevi
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La nostra interpretazione

L’esperienza dell’abbandono è paragonata a un ingresso forzato in un territorio sconosciuto, spoglio e arido, dove le coordinate emotive abituali non funzionano più. Non si tratta solo della fine di un rapporto, ma della scoperta di una dimensione dell’esistenza in cui la sofferenza assume un tono nuovo, quasi straniero. Chi viene lasciato si ritrova improvvisamente separato dalla continuità della propria vita affettiva e si confronta con un silenzio pesante, in cui desiderio e realtà non coincidono più. Il desiderio continua a spingere verso l’altro, ma la sua assenza trasforma l’anelito in fatica, in stanchezza dell’anima. In questa nuova condizione, il dolore non è solo acuto, ma anche rivelatore: fa emergere un lato oscuro dell’esistere che prima era solo intuìto o completamente ignoto. L’abbandono obbliga a misurarsi con la precarietà dei legami, con la consapevolezza che ciò che si credeva solido può dissolversi improvvisamente. La desolazione interiore diventa allora una sorta di paesaggio psichico in cui si è costretti a vagare, ascoltando una voce di disperazione che non si era mai udita con tanta chiarezza. In questo spazio nuovo e severo, la persona è spinta a riconoscere la vulnerabilità del proprio desiderio, la sua dipendenza dall’altro e, al tempo stesso, la necessità di imparare a sostenerne il peso senza più appoggi esterni. L’abbandono diventa così un passaggio doloroso che ridefinisce cosa significhi esistere e desiderare, mostrando quanto profondamente l’altro sia intrecciato con la nostra stessa percezione del mondo.