Il pensiero proposto mette in discussione l’idea che l’amore possa essere compreso pienamente attraverso l’esperienza quantitativa e la moltiplicazione dei rapporti. Si suggerisce una prospettiva quasi paradossale: per conoscere davvero l’amore, bisognerebbe averlo sperimentato con il maggior numero possibile di persone. Sullo sfondo, però, emerge un interrogativo: è davvero la somma delle esperienze a generare comprensione, oppure esiste una qualità dell’incontro che conta più della sua ripetizione? Il desiderio di “sapere tutto” sull’amore è animato dalla paura di perdersi qualcosa, di non aver vissuto abbastanza, di restare ignari di sfumature possibili. Tuttavia, una ricerca così estesa rischia di ridurre le persone a mezzi di conoscenza e l’amore a un oggetto da catalogare, più che a un legame che trasforma dall’interno. Si apre così una tensione tra la curiosità inesauribile dell’essere umano e i limiti etici ed emotivi di una vita fatta di legami plurimi e superficiali. Nello sfondo si intravede anche una critica ironica alla pretesa di controllo totale sui sentimenti. L’amore, per sua natura, sfugge a ogni tentativo di possederlo intellettualmente. Non si lascia misurare da numeri, né si lascia ridurre a una competenza che cresce solo “facendo pratica”. L’idea di doversi confrontare con “tutte le donne possibili” evidenzia un impulso quasi scientifico, ma calato in un ambito che non risponde alle logiche della sperimentazione sistematica. L’esperienza può certamente ampliare lo sguardo, ma oltre un certo limite genera solo dispersione. Ciò che viene messo in evidenza è il rischio di scambiare la varietà per profondità, l’accumulo per comprensione. La vera conoscenza affettiva, invece, sembra nascere dalla capacità di stare, di approfondire, di accettare la vulnerabilità in pochi rapporti autentici, piuttosto che dal passare rapidamente attraverso una moltitudine di relazioni diverse.