La percezione della fine è dentro ciascuno di noi, è uno stigma della specie, un marchio della sua caducità.
La solitudine è una pace inaccettabile.
La dimensione più bella è quella del sacerdote che non ha nulla, ma che è parte integrante di una comunità attiva e attenta, dentro un gregge che gli vuole bene.
La follia ha già a che fare con la morte, anche se non nella sua rappresentazione corporea, bensì in quella psicologica, la personalità, e in quella sociale, le relazioni.
Il matrimonio è sacro perché al suo interno ammette il mistero della vita.
Il sacerdote mi pare la figura più indicata a parlare della morte: lui sa che non è un argomento di disperazione.
Da qualche parte esiste una fine. Solo che non si trova un cartello con scritto "Ecco, questa è la fine", come al gradino più alto di una scala non si trova scritto: "Attenzione, questo è l'ultimo gradino. Non fate un passo oltre."
Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo siamo mai.
Il fine può giustificare i mezzi purché ci sia qualcosa che giustifichi il fine.
Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine? A questa domanda che il pensiero lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi.
Il fine, che non può essere conseguito se non con mezzi cattivi, non può essere un fine buono.
Il lieto fine è la nostra fede nazionale.
C'è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte.
La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
Un fine autentico può fare a meno di speranze e anche di ogni probabilità di essere raggiunto.
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