Solitamente le persone che fingiamo di amare imparano ad accontentarsi, forse perché, anche se l'amore che si riceve non è vero, è però vera l'offerta, l'intenzione.
— Fabio Volo
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La nostra interpretazione
Le relazioni affettive spesso si muovono in una zona grigia in cui ciò che si offre non coincide davvero con ciò che l’altro desidererebbe ricevere. Ci sono situazioni in cui una persona viene coinvolta in un legame in cui l’amore non è pieno, autentico, totalizzante, ma una sorta di surrogato: un affetto tiepido, una presenza a metà, una partecipazione più di testa che di cuore. Chi dà questo tipo di coinvolgimento può non provare un sentimento profondo, ma offre comunque tempo, attenzione, gesti di cura, e lo fa con una certa onestà di intenzione: non sempre c’è malizia, talvolta c’è confusione, paura o incapacità di amare davvero.
Chi riceve, però, spesso finisce per adattarsi a questa forma ridotta di amore. Impara a convincersi che basti l’idea di essere scelto, la promessa implicita contenuta nei gesti, il bisogno di non restare solo. Ci si aggrappa alla concretezza delle attenzioni, anche se non sono sostenute da un sentimento profondo. La vera contraddizione sta qui: l’amore forse non c’è, ma c’è pur sempre un’offerta reale, una presenza che rassicura, uno sforzo che sembra autentico. Questo porta alcune persone a rimanere in relazioni in cui si accontentano di qualcosa di meno rispetto a ciò che meriterebbero, quasi come se l’intenzione di voler bene potesse sostituire la mancanza di un amore pieno e sincero. Dietro questo accontentarsi si nascondono paure, insicurezze e il timore di affrontare il vuoto che seguirebbe alla rinuncia di un legame che, sebbene imperfetto, dà comunque una parvenza di appartenenza e significato.
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