A forza di credersi malato, lo si diventa.— Marcel Proust
A forza di credersi malato, lo si diventa.
Viviamo di solito nell'abitudine, con il nostro essere ridotto al minimo. Le nostre facoltà restano addormentate, riposando sui guanciali dell'abitudine: essa sa quello che c'è da fare e non ha bisogno di loro.
I dispiaceri sono servitori oscuri, detestati, contro cui si lotta, sotto il cui dominio si cade ogni giorno di più, servitori atroci, insostituibili, e che, per vie sotterranee, ci conducono alla verità e alla morte.
Qualsiasi essere amato - anzi, in una certa misura qualsiasi essere - è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia.
È nella malattia che ci rendiamo conto di non vivere soli, ma incatenati a un essere appartenente a un regno diverso, dal quale ci separano abissi, che non ci conosce e dal quale è impossibile farci capire: il nostro corpo.
L'idea che si morirà è più crudele del morire, ma meno dell'idea che un altro sia morto.
Per malattia si deve intendere un intempestivo approssimarsi della vecchiaia, della bruttezza e dei giudizi pessimistici cose che sono in relazione fra loro.
La malattia è il lato notturno della vita.
Le malattie sono più intelligenti di noi, trovano la risposta dei nostri problemi prima della ragione.
Le malattie sono le grandi manovre della morte.
La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione.
Malattia e solitudine sono affini. Alla minima malattia, l'uomo si sente ancora più solo di prima.
Il malato è un veggente, nessuno possiede un'immagine del mondo più chiara della sua.
Una malattia non conta nulla, quando non si hanno ragioni per desiderare di guarirne.
Attorno agli ammalati bisogna essere allegri.
Trarre dalla malattia, specialmente quando non è veramente tale, la maggior dolcezza possibile. Essa ne contiene molta.